Ogni organizzazione
sociale, cioè un insieme di uomini riuniti per uno scopo
e con determinate regole interne, è caratterizzata da
un principio indiscutibile: la volontà di fare insieme
ad altri qualcosa che è difficile o costoso, o rischioso
o impossibile fare individualmente.
Dall'autoconservazione, al progresso tecnico, dalla difesa da
nemico, all'istruzione: tutte queste esigenze individuali
e collettive hanno dato origine ad organizzazioni nella convinzione
che queste fossero la migliore modalità di soddisfazione.
Una organizzazione sociale ha come scopo primario la realizzazione
dei fini che la comunità le ha affidato.
La famiglia è l'organizzazione primaria che l'uomo si
è dato per la soddisfazione dei bisogni di sicurezza,
amore, sopravvivenza. Dall'insieme delle famiglie, alla tribù,
allo stato, alla comunità sovranazionale troviamo una
serie di modalità organizzative complesse, finalizzate
alla maggior efficacia dell'azione dell'uomo sulla realtà
circostante.
Nello sviluppo psichico un individuo media tra il principio
del piacere e il principio della realtà, reprimendo una
parte delle proprie pulsioni istintuali grazie a meccanismi
superegoici (proibizioni, paure, sensi di colpa, ecc.). Nello
sviluppo sociale il nucleo familiare compie una mediazione più
vasta, sacrificando una serie di libertà a favore di
possibilità maggiori ottenibili mediante la sottomissione
a strutture macrosociali organizzate.
La famiglia
rinuncia a difendersi da sé o ad istruirsi autonomamente,
creando l'istituzione "esercito" o la istituzione
"scuola" alle cui regole (concordate) decide di sottostare.
Alcuni bisogni individuali sono meno importanti, oppure temporanei,
o non generalizzabili al punto che non si crea una organizzazione
per soddisfarli: queste esigenze trovano una risposta nei gruppi
microsociali come la classe scolastica, il gruppo di lavoro
la associazione amicale.
Le organizzazioni micro e macrosociali sono dunque fenomeni
di potere delegato a scopo di efficacia. L'individuo delega
una parte del suo potere all'istituzione affinché questa
gli renda un servizio; oppure baratta una parte della sua onnipotenza
col gruppo in cambio di beni che solo il gruppo può offrire
(sicurezza, solidarietà, amore ecc.).
2. Cristallizzazione della diseguaglianza (potere e delega)
La diseguaglianza
probabilmente affonda le sue radici anche in fatti biologici
non ancora controllati, oltre che in fatti sociali.
Il problema della società è quello di scegliere
fra lo strutturarsi in un sistema omogeneo alle differenze genetico-familiari,
o l'organizzarsi invece per la loro progressiva eliminazione.
La scelta è esclusivamente valoriale o metastorica. C'è
chi crede nella Redenzione e nella vittoria del Proletariato,
e chi no.
Purtroppo la storia dell'uomo ci offre solo esempi mitologici
di strutture egalitarie durevoli: se entriamo nel periodo
della civiltà "scritta" notiamo che le strutture
sociali sono essenzialmente servite a cristallizzare la diseguaglianza.
Le deleghe di potere hanno creato (forse contestualmente) la
proprietà privata ed i ruoli sociali, che, invece di
essere ciclicamente ruotati ed equamente distribuiti, si sono
concentrati ed accumulati e conservati nelle mani di pochi.
La sostanziale distinzione fra l'orda e la società civilizzata
è la cristallizzazione dei ruoli, la divisione del
lavoro e del potere, e la nascita di istituzioni di conservazione.
Possiamo convenire che tutte le organizzazioni e le istituzioni
della società occidentale hanno una struttura di tipo
piramidale, in cui il vertice detiene il massimo del potere
e del profitto; ai livelli inferiori potere e profitto decrescono
fino all'ultimo gradino dove esiste il massimo del loro contrario:
l'alienazione e lo sfruttamento.
max profitto
max alienazione max sfruttamento
Tralascio qui di dilungarmi su analisi arcinote relative alle
caratteristiche dell'élite, agli strumenti che usa per
restare tale, e alle possibilità politiche di trasformare
la piramide in una figura geometrica meno spigolosa. Mi interessa
qui solo analizzare la dinamica psicologica di questa situazione
sociale e il possibile ruolo che l'Animazione Sociale può
giocare in tale dinamica. Lo schema offerto, pur nella sua grossolanità,
vale per tutte le organizzazioni umane della società
industriale.
Vale anzitutto per lo Stato Capitalista e per l'impresa dell'economia
di mercato, dove poco si può aggiungere all'analisi marxista;
vale per la famiglia tradizionale monocellulare; vale per l'istituzione
scolastica, per l'esercito, la Chiesa, il partito, l'ospedale,
il sindacato. Nelle organizzazioni il cui fine dichiarato
non è il Profitto, come il sindacato o l'impresa
dei paesi orientali, la posta in gioco è prevalentemente
il Potere ed il gradino più basso della piramide con
la sua attività produce una sorta di "plusvalore
di potere" a beneficio della conservazione del vertice.
3. Meccanismi di compensazione e crisi
Tutte
queste organizzazioni sopravvivono nella struttura piramidale
grazie ad una serie di meccanismi compensatori con cui il vertice
"paga" i gradini inferiori: la sicurezza e la
deresponsabilizzazione, gli oggetti da consumare; la trasferibilità
dell'esercizio del potere. L'individuo non ha più la
responsabilità di pensare al suo proprio mantenimento
né oggi né domani (ci pensa l'azienda), di provvedere
alla sua istruzione (c'è la scuola), o alla sua difesa
(c'è l'esercito o la polizia). L'individuo non ha problemi
di ansia e competenza per decidere, non deve prevedere, approfondire,
trarre conclusioni: a tutto ciò, pensa il vertice. Il
Governo, il preside, il generale, il primario, il delegato sindacale,
il leader, il padre ci sollevano dalla responsabilità
e ci danno sicurezza. Tutto in cambio di poca cosa: una delega
di potere.
Il problema è che la delega si è cristallizzata
nelle generazioni, ed è ormai irritirabile. E' divenuta
proprietà privata e ne ha assommate altre a sé;
è indiscutibile; è spesso ereditaria. Tende ad
allontanarsi sempre più dalla sua fonte; a vivere una
vita autonoma ed anche contraria alle ragioni che l'hanno giustificata.
Ecco allora che insieme alla deresponsabilizzazione viene anche
l'indisponibilità di noi stessi: continuando a delegare
porzioni di potere ci siamo accorti di averlo perso totalmente.
A volte questa delega si cristallizza con il consenso. Esso
è più tranquillizzante del conflitto, è
più facile a breve scadenza. È la vendita dell'anima
al diavolo e la rinuncia alla lotta.
Quanti Faust e quanti Dorian Gray ci sono fra i sostenitori
del consenso e della pace!
Il consenso che è raggiunto con una paga più alta
(cooptazione), o con una razionalizzazione (è così
perché è giusto), o con la compensazione consumistica
indotta dai miti e dai mass-media (tutti possiamo avere una
bella auto).
A volte il consenso è strappato con una imposizione autoritaria:
il potere delegato fa uso della forza fisica o morale per conservarsi.
La tortura, le deportazioni, le guerre, il carcere, i ghetti
urbani, le istituzioni totali, le minacce, il ricatto, il senso
di colpa sono tutta una gamma di strumenti di cui il vertice
fa uso a seconda delle situazioni.
Più spesso tuttavia il potere delegato si cristallizza
attraverso tutto l'insieme di questi meccanismi, dal consenso
alla violenza, con l'aggiunta di quello che possiamo definire
"trasferibilità dell'esercizio del potere".
Un individuo o un ceto sociale accetta di delegare parte del
suo potere purché gli sia possibile gestire una porzione
di potere delegatagli dal basso. Nelle organizzazioni gerarchiche
ogni livello ha un livello inferiore su cui scaricare l'aggressività
in termini di potere; e l'ultimo livello ha sempre l'esterno
dell'organizzazione a cui rivolgersi. Come penultima zona di
esercizio del potere c'è sempre la famiglia, la moglie
e il figlio; come ultima sponda ci sono gli oggetti o la natura,
che non reagiscono mai. E la pace sociale degli anni 30.
Chi per caso non deteneva la possibilità (o la rifiutava)
di ricevere compensazioni alla propria delega in termini
di oggetti, o di sicurezza, o di potere, era talmente minoranza
da non recare nessun vero disturbo al sistema (il 3% di dissenso
che "fa bene").
Ma in questo quadro così razionale e irrazionale risiedono
le contraddizioni da cui origina la crisi degli anni 60: i corrispettivi
tradizionali della delega di potere sono venuti gradualmente
meno.
Si è incrinato dapprima il principio dell'autorità
nel conflitto generazionale dei giovani contro il padre,
delle donne contro i mariti, dei negri contro i bianchi. Poi
la sicurezza ha lasciato il posto all'ansia del mutamento,
del provvisorio, del pericoloso. Infine anche i consumi vengono
resi insicuri. Ci è proibito persino di innamorarci dell'automobile.
4. Presa di coscienza o ritorno al padre?
Di fronte
a queste macroscopiche contraddizioni, il cui vissuto si sta
estendendo dalla classe operaia ai ceti intermedi collocati
un gradino sopra (insegnanti, tecnici, capireparto, impiegati,
ecc.), sono aperte due strade antitetiche.
Da una parte la presa di coscienza, la volontà di cambiare,
la assunzione del rischio connesso al cambiamento, e l'attivazione
della lotta per il recupero del controllo del potere. Questo
atteggiamento è proprio dell'individuo adulto, capace
di controllare le ansie, le paure, le resistenze che nascono
dall'impegno di trasformare la realtà; dell'individuo
autonomo, emancipato, capace di respingere la sicurezza di un
sistema materno/ paterno perché attinge a valori slegati
dagli oggetti.
Dall'altra parte esiste invece il pericolo (assai più
probabile, visto che la famiglia e l'educazione c~ propongono
modelli autoritari rassicuranti) che la constatazione delle
contraddizioni si traduca in un mostruoso, insopportabile
senso di colpa collettivo. Per cui l'unica modalità di
espiazione sarebbe quella di inginocchiarci davanti all'Autorità
(l'austero padre tanto ingiustamente contestato) e di attenderne
la doverosa punizione.
In una situazione ansiogena gli individui cercano disperatamente
la sicurezza, e la presa di coscienza di questa verità
viene rimossa anche da coloro che sono arrivati alla critica
delle contraddizioni del sistema. Cosa è il ricorso a
certe dettagliate utopie, se non la richiesta di una sicurezza
che è lontana sì, ma definita?
La presa di coscienza delle contraddizioni sociali passa attraverso
la presa di coscienza del rapporto di sfruttamento che ci lega
al padre (che fa di noi l'oggetto del suo potere). Ma questa
scoperta in una società autoritaria è troppo
colpevolizzante e traumatica. Il passaggio da una organizzazione
piramidale ad una circolare, dall'eterogestione all'autogestione,
non può che essere una tendenza graduale ed un susseguirsi
infinito di surrogati del padre, con un potere delegato sempre
inferiore.
5. Il cambiamento ed il ruolo
Definiamo
il cambiamento come il passaggio da un situazione A ad una situazione
B, diversa dalla prima. Usando le lettere A e B escludiamo qualsiasi
attribuzione valoriale alle due situazioni: esse sono solo diverse.
Questa operazione di cambiamento, che noi effettuiamo molte
volte al giorno, sottintende una complessa dinamica psicologica,
alla quale bisogna fare accenno.
Poiché l'uomo è un animale che si adatta alla
situazione in cui vive, l'IO di ciascuno cerca sempre un equilibrio
fra le proprie pulsioni istintuali e la realtà. Sull'equilibrio
raggiunto, l'IO si rassicura, si arrocca, si difende nel timore
che un eventuale cambiamento rompa l'equilibrio a sfavore di
quella parte degli istinti che è soddisfatta. Il passaggio
da un equilibrio ad un altro viene effettuato volontariamente
e consapevolmente solo quando l'IO è garantito nell'aumento
globale di soddisfazione istintuale. Tutte le altre volte,
e nel caso di cambiamenti sociali, l'individuo non è
mai garantito, l'IO resiste. In una situazione sociale di dinamica
accelerata questa lentezza di "metabolismo psichico"
è portatrice di una serie di conseguenze negative che
assumono varie dizioni: invecchiamento precoce, esclusione,
sudditanza, insignificanza, disadattamento ecc.
I sistemi di informazione ed i processi di accumulazione del
capitale hanno provocato quello che viene ottimisticamente definito
"progresso", ma che significa invece "aumento
progressivo dei ritmi di mutamento". La realtà dunque
fluisce, cambia continuamente.
Assistere a questo cambiamento come spettatore, soddisfatto
o critico, significa regredire lentamente a stadi sempre maggiori
di dipendenza dal padre. Perché al contrario agire nel
mutamento, come attori di una parte di esso, significa controllare
una parte del potere o riappropriarsi della delega.
L'IO deve poter gestire equilibri dinamici in rapida successione,
saper operare sul sociale mentre questo si muove, saper agire
nell'indefinito e nell'ambivalenza. Questo però aumenta
la nostra ansia di razionalisti, amanti delle variazioni programmate,
abituati a considerare la realtà come data (un'automobile
ferma che attende il nostro modesto intervento su un pezzo di
carrozzeria), educati alle certezze scientifiche, agli odi e
agli amori manichei.
E allora quando l'ansia arriva al livello di guardia torniamo
indietro o ci fermiamo; l'IO si inchioda sull'ultimo equilibrio
che gli dà sicurezza: qualcun altro penserà al
mutamento anche per noi! Basta delegargli il potere!
E poiché riconoscere a se stessi di aver rinunciato alla
propria adultità, al potere su se stessi, è doloroso:
razionalizziamo. Cioè giustifichiamo la nostra sconfitta
(la vendita dell'anima al Diavolo), con alibi rassicuranti:
"io sono disposto a cambiare, ma gli altri non vogliono!",
"niente si può mutare se non cambia il sistema!
". La realtà è che cambiare, cioè
decidere e agire, è costoso sia sul piano psicologico
sia su quello oggettivo, quindi richiede un atto di profonda
volontà.
Mutare significa abbandonare la sicurezza, quindi accettare
l'ansia ed il rischio. Mutare significa decidere, dunque scegliere
fra diverse possibilità e accettare il senso di colpa
verso le decisioni respinte. Quindi ansia, rischio, senso di
colpa nella sfera psicologica.
Ma poiché siamo in un sistema sociale che tutto prevede,
che codifica dei ruoli cristallizzati, il mutamento colpisce
anche l'organizzazione della società e i suoi equilibri
di potere: ecco perché spesso il mutamento porta dietro
a sé la repressione.
Il ruolo assegnato a ciascuno di noi nel contesto sociale, non
è altro che la posizione che occupiamo e l'insieme di
azioni che la posizione ci induce a compiere.
Nello schema della organizzazione piramidale, dal momento che
il vertice tende a conservarsi, tutte le posizioni inferiori
hanno un ridottissimo grado di mobilità. Da ciascun ruolo
ci si aspettano comportamenti codificati, caratteristiche
definite; ogni mutamento nella gestione del ruolo comporta uno
spostamento nell'equilibrio della organizzazione, disturba la
distribuzione del potere. Dunque è sempre sanzionato
con la repressione o col ritiro dell'amore da parte dell'autorità-padre:
due cose che non sopportiamo a lungo.
Il ruolo è come la parte in teatro. Le battute sono già
scritte, il costume è deciso, persino le inflessioni
della voce sono stabilite dal regista: si tratta solo di scegliere
la persona giusta per incarnare la parte. Poiché la Compagnia,
la parte e il regista contano più dell'attore (di solito),
chi non si adatta al ruolo se ne va.
Il ruolo sembra dunque l'esecuzione di atti stabiliti da altri
e altrove.
Ma questa
è ciò che il sistema, l'autorità, il padre
tentano di imporci. Chi risponde alle aspettative connesse al
suo ruolo è compensato dagli oggetti, dalla considerazione
del gruppo, dall'amore del padre; è rassicurato
e non ha sensi di colpa.
Il ruolo è dunque l'abito col quale si è ammessi
ad assistere alla rappresentazione della storia, del potere,
della vita.
Ma il cambiamento non è solo una oscillazione dinamica
dell'IO che segue e si adatta ad una realtà in evoluzione;
è anche la volontà di trasformare la realtà
verso una maggiore soddisfazione dei nostri bisogni, un plasmare
creativo della natura, un avere potere su di essa.
A favore dell'ordine piramidale, cioè della ineguale
distribuzione del potere, l'aggressività individuale
è distorta, deviata, sublimata, comunque allontanata
dal suo obiettivo primario. Qui intendiamo il termine aggressività
come la capacità di trasformare la realtà e se
stessi, la capacità di realizzarsi, il potere di gestirsi.
Dal momento che la gran parte di queste espressioni dell'aggressività
sono delegate all'organizzazione sociale, ai singoli restano
solo dei surrogati: la competizione sul lavoro, la distruzione
della natura, la violenza verbale o fisica, il tifo sportivo,
la caccia al nemico (gli arabi, l'inter, i giovani ecc.).
La riconduzione dell'aggressività nel canale dell'autorealizzazione
presuppone il tentativo di trasformazione dell'altro, la
rottura dell'equilibrio, quindi il conflitto e l'insicurezza.
In questa ottica il ruolo non è altro che il complesso
di accessori e di strumenti culturali, tecnici, economici per
l'espressione della aggressività e per il mutamento.
Il ruolo come metodologia del cambiamento, come angolo di approccio
per la trasformazione della realtà.
Il ruolo come insieme di competenze e di attributi e di conoscenze,
con le quali agiamo sugli altri, su noi, e sulla realtà.
Il ruolo allora è solo la maschera che ci fa salire sul
palcoscenico a rappresentare un lavoro, in cui è
tutto da discutere: dalla trama ai personaggi. Il ruolo come
gabbia dell'aggressività deve lasciare il posto al ruolo
come tecnica di espressione della creatività e del potere.
Nel ruolo codificato, conchiuso, circondato, il potere sugli
obiettivi dell'aggressività è delegato al vertice;
il mutamento è controllato; il conflitto è denegato.
Nel ruolo aperto, mutevole, creativo, il potere è recuperato,
il mutamento e quindi il conflitto sono permanenti.
6. Come sostenere il conflitto?
Se esiste
una diseguale e cristallizzata distribuzione dei ruoli e quindi
del potere; se ogni organizzazione sociale è a forma
piramidale; se il rapporto padre-figlio, dominante-dominato
è radicato nella nostra civiltà; si può
parlare di mutamento solo in relazione al conflitto.
Quale forza spontanea, non conflittuale porterebbe infatti al
mutamento dei rapporti di potere?
Parlare di conflitto tuttavia equivale ad evocare una serie
di fantasmi come la perdita dell'amore del padre, la punizione,
il senso di colpa, i quali hanno una tale forza nel nostro subconscio
da spingerci a denegare l'ineluttabilità del conflitto
stesso.
L'individuo singolo ha raramente la forza psicologica di superare
questi fantasmi, e quand'anche la trovasse avrebbe ben poche
possibilità di gestire vittoriosamente il conflitto contro
il padre ed il Potere. Normalmente l'individuo che entra
in conflitto individuale con l'organizzazione, è considerato
deviante e subisce una serie di penose vicissitudini.
Diversa cosa può divenire questo conflitto, se è
un gruppo a farsene carico; diversissima, se è un insieme
di piccoli gruppi organizzati fra loro. La rottura dei ruoli
cristallizzati, la disoccultazione del potere ad essi sotteso,
il mutamento individuale e sociale, l'incanalamento dell'aggressività
verso questi obiettivi, entrano nella sfera della possibilità
a livello di piccolo gruppo prima, e di organizzazione poi.
7. Piccolo gruppo autogestito
Un numero
limitato di persone si raccoglie attorno ad un obiettivo, un
progetto comune; accetta il postulato della mediazione fra istinti
individuali e bisogni collettivi; accetta la fede dell'uguaglianza;
elabora un senso graduale di appartenenza ad una entità
"gruppo" più importante della semplice somma
degli individui; quindi tenta di realizzare l'obiettivo
condiviso.
Se l'obiettivo è limitato (migliorare le capacità
individuali di socializzazione, approfondire un argomento
di studio, soddisfare esigenze culturali o affettive) il piccolo
gruppo può dar luogo al cambiamento. Perché? Perché
esso diventa un rassicurante strumento paterno/materno alternativo.
Perché è una organizzazione sociale da laboratorio,
non vincolante; non essendo il piccolo gruppo una organizzazione
storicamente consolidata, esso non ha la forza di riprodurre
i meccanismi di potere e alienazione. Perché il piccolo
gruppo con le caratteristiche suddette ci protegge nel nostro
processo di cambiamento individuale; è più forte
nei momenti di cambiamento della realtà. È il
luogo dove il potere può essere delegato, e poi ritirato;
distribuito equamente o a rotazione. Conseguentemente è
lo strumento per riprendere la libertà espressiva smarrita;
la creatività umiliata dall'ingabbiamento nei ruoli.
È lo strumento che attutisce il senso di colpa nei confronti
della struttura che ci apprestiamo ad innovare; ci compensa
della perdita dell'affetto dell'autorità con cui entriamo
in conflitto; ci difende dalla eventuale repressione; ci trasforma
da devianti in minoranza.
È il luogo in cui sperimentiamo l'autogestione.
8. L'organizzazione
Se l'obiettivo
è più ambizioso (rivoluzione, liberazione, partecipazione
sociale, lotte operaie, ecc.) il piccolo gruppo non basta più.
Occorre un collegamento fra migliaia di gruppi. Un'organizzazione?
Dobbiamo chiederci se è possibile avviare una organizzazione
sociale alternativa non solo nei fini, ma anche nei metodi.
Oppure il rapporto padre-figlio, lo sfruttamento del plusvalore
di potere sono fenomeni intrinseci ad ogni organizzazione "efficace"?
Non è il caso di andare troppo oltre in questo quesito,
perché esso attinge con evidenza alla sfera del metastorico,
della fede.
Il dilemma è quello fra Bene e Male, fra il buon selvaggio
e l'homo homini lupus. È forse solo lecito porci la domanda
se ciò che può essere partecipativo, adulto e
fraterno in un microgruppo (a certe condizioni) non diventi
regolarmente autoritario, infantile e repressivo in una organizzazione
macrosociale. E chiederci anche se non sia normale che tanto
più vasto è il raggio d'azione di un individuo,
tanto maggiori sono le mediazioni con la realtà che deve
fare, e quindi le limitazioni alle proprie soddisfazioni istintuali.
Questo significa che la libertà, l'amore, la realizzazione
possono esistere solo nelle microdimensioni? Ma queste cose
che sono se non momenti transeunti, o artificiali o marginali
nella realtà?
Forse libertà, amore, autorealizzazione sono il sogno,
l'utopia, l'obiettivo convenzionale di una lotta, di una
ricerca fine a se stessa? Sono la lepre nella corsa dei cani
o la cima di una montagna, remota, ma raggiungibile?
9. Fiducia nell'uomo
Siccome
la vita tutta è immersa nell'ambivalenza, non pensiamo
certo di sospendere la nostra azione, solo in attesa che sia
data una risposta ai quesiti. Con un atto di fede, accettiamo
tutte le convenzioni ottimistiche:
da una parte perché questa accettazione ci solleva dal
senso di colpa di avere disoccultato il ruolo di sfruttamento
che il nostro padre-autorità gioca verso di noi; in secondo
luogo perché questo ci permette di avere una buona opinione
di noi stessi e di assegnarci una missione da compiere.
Se l'uomo è cattivo e i valori sono miraggi, allora nulla
serve a nulla; il padre è cattivo e deve essere punito,
ma anch'io sono malvagio ed è giusto che egli mi punisca:
è il generalizzato masochismo medievale. Se l'uomo è
buono, tutti lo siamo: c'è solo qualche malvagio e qualche
errato sistema di organizzazione sociale. Trovare i colpevoli
e punirli, gli errori ed eliminarli: è la sadica missione
che ci siamo assunti nella nostra epoca. Ma è anche la
nostra missione etica.
10. L'animatore
L'unità
di misura del cambiamento sociale è dunque il piccolo
gruppo. Ma non è da credere che in esso i postulati e
le convenzioni siano cosa acquisita dall'inizio e sempre in
funzione. Anzi, la convenzione dell'uguaglianza, della
uguale distribuzione del potere, dell'obiettivo comune sono
inesistenti proprio all'inizio della vita del gruppo: questi
sono fini del gruppo al pari dell'obiettivo ufficiale su cui
gli individui si sono uniti.
Qualcuno deve dare vita al gruppo, cioè promuoverlo;
qualcuno deve condurlo nei primi passi; deve rappresentare
la sintesi del gruppo; deve garantire il flusso delle comunicazioni
e delle informazioni verso tutti i membri; deve vegliare sui
fenomeni negativi che gli individui mettono in atto contro il
gruppo (che essi amano e odiano nel contempo); deve ricordare
al gruppo l'obiettivo e la vocazione a realizzarlo con "efficacia".
E costui ha una miriade di termini che lo indicano: animatore,
educatore, insegnante, capogruppo, conduttore, trainer, leader,
rappresentante, delegato, ecc. Ma il ruolo che egli gioca
quasi sempre è uno solo: quello di padre/autorità.
Egli offre sicurezza, e chiede potere.
Un potere gestito su una vasta gamma di toni: dal comando, alla
manipolazione, alla convinzione, all'influenza, all'orientamento.
Poiché a questo punto la larga schiera di rogersiani
sarà tentata di cambiare articolo, sono costretto
a fare qualche breve osservazione su il rapporto fra direttività
e non-direttività.
11. Direttività e non
Se intendiamo
non-direttività come assenza di manipolazioni dell'educatore
verso l'educando, dico subito che questa non esiste.
L'animatore, l'insegnante, l'educatore hanno una ideologia politica,
hanno precise idee su cosa sia o debba fare un uomo, e in base
a queste essi operano. Se non lo facessero, il loro lavoro sarebbe
inutile. Se non-direttività significa uso di tecniche
attive, partecipative o maieutiche, possiamo concordare
sul fatto che essa è solo un modo di fare passare meglio
un messaggio: che dunque non possiamo accettare tout court,
ma in base ad un giudizio di valore sul messaggio.
Il rapporto educativo, di leadership o di rappresentanza è
dunque manipolativo, nel senso che c'è qualcuno
che decide per altri o influenza l'altrui decisione, in base
a idee personali. Va detto che raramente queste idee personali
equivalgono ad interessi personali. Il più delle volte
si tratta solo di gestione "pura" del potere, allo
scopo di imporre la visione del mondo in cui si crede o di sentirsi
"padre" di un gruppo.
D'altro canto questa assunzione del ruolo di padre da parte
del leader o dell'animatore, è una delle condizioni perché
il gruppo si emancipi dai condizionamenti personali precedenti.
Il leader è un padre alternativo, nella fase in cui il
gruppo non è ancora funzionante al punto da esserlo esso
stesso.
Il filo che passa tuttavia fra la gestione corretta del ruolo
del leader/ educatore/animatore e lo sfruttamento del plusvalore
di potere che questo ruolo consente, è assai sottile.
Questa figura, va detto subito, è un rimedio non ottimale
e di transizione. Per passare da un condizionamento e da una
sudditanza dell'individuo da parte dell'organizzazione sociale
all'autogestione, è necessaria una serie di stadi
intermedi di cui uno è la sudditanza al leader.
Come può essere agito correttamente questo ruolo? Solo
mediante alcuni correttivi.
E si deve parlare di correttivi perché la assunzione
di un ruolo emergente all'interno di un gruppo, porta con sé
inevitabilmente la tentazione di restaurare il rapporto padre/figlio
come permanente.
Il primo correttivo è la disoccultazione dei pericoli
connessi al ruolo dell'animatore. Il gruppo va messo costantemente
sull'avviso di ciò che accade nel suo rapporto coll'animatore;
dello stato del processo di crescita e di emancipazione
di ciascun membro; dei meccanismi (consci o inconsci) che l'animatore
mette in atto per manipolare il gruppo.
Questo costringe l'animatore ad una autoanalisi permanente che
lo porti a mettersi costantemente in gioco nel gruppo e che
gli impedisca di considerare come "del gruppo"
le sue resistenze, la sua ideologia, le sue proiezioni.
Un secondo correttivo è il controllo sociale. L'animatore
deve essere in costante interazione con quelle forze sociali
(organizzazioni lavoratori, gruppi di base, comitati di quartiere,
ecc.) cui il gruppo fa in qualche modo riferimento. Questo contatto
costante permette all'animatore di verificare la propria azione,
al di fuori di quel senso di onnipotenza che la responsabilità
di un gruppo comporta quasi sempre.
Infine, poiché i primi due correttivi non sono garanti
della non manipolazione, esiste una verifica a posteriori
dell'azione dell'animatore: il buon funzionamento del gruppo
anche in sua assenza. La transitorietà del ruolo è
la vera discriminante fra l'animatore che gestisce un plusvalore
di potere, ed un animatore che educa.
12. Educazione e autogestione
Perché
è proprio l'educatore il fine che deve essere sotteso
ad ogni ruolo emergente. Intendendo per educazione l'acquisizione
della capacità di espressione e di autorealizzazione,
la emancipazione dal padre, l'autogestione.
Da una società che ci eterogestisce possiamo passare
all'autogestione, attraverso l'esperienza di un piccolo gruppo
con la presenza di un animatore. Schematicamente:
Istituzione
Piccolo gruppo. Individuo Adattamento
(eterogestione) Animatore (autogestione ) Disadattamento
(partecipazione) Organizzazione
Ma anche qui
ci vuole chiarezza. Non dobbiamo mai dimenticare che il piccolo
gruppo (politico, di studio, di ricerca, di lavoro, di fede,
ecc.) è una realtà da laboratorio, è una
esperienza parziale e transeunte. Confonderlo con la totalità
della realtà, trovarsi realizzati e soddisfatti solo
in esso, è assai pericoloso.
C'è il rischio che una tale esperienza educativa, il
cui fine è produrre un vissuto funzionale all'autogestione
nella realtà, assuma la veste di madre protettrice coi
partecipanti in permanente dipendenza. Il piccolo gruppo come
terapia, l'animatore come padre/medico/prete possono avere una
funzione positiva (e spesso i partecipanti ad un gruppo chiedono
solo questo) purché in via transitoria.
Ogni gruppo deve avere un obiettivo parziale ed un tempo d'esecuzione.
Al termine dell'esperienza l'obiettivo ufficiale deve essere
raggiunto così come deve essere aumentata la capacità
di autogestione di ciascun membro. Se ciò non avviene
può essere per due motivi: incapacità dell'animatore
o troppo pesanti condizionamenti esterni.
Al termine della vita del gruppo, ciascun membro deve dunque
aver acquisito una maggior capacità di autogestione.
Non possiamo non chiederci che fine essa faccia e come possa
essere messa a frutto. Se la società non fosse quella
"makkina" repressiva e alienante che conosciamo e
se queste esperienze di gruppi autogestiti fossero diffuse,
potremmo intravvedere un cambiamento sociale a breve termine.
Invece la manipolazione, la repressione, la alienazione
esistono e le esperienze di autogestione reale sono rarissime.
Risultato:
le capacità di autogestione dell'individuo dopo una intensa
esperienza vengono disperse mediante due meccanismi precisi.
Da una parte il sistema assorbe, ottunde, soffoca il vissuto
esperenziale attraverso la sua impermeabilità. L'individuo,
dopo i primi tempi dell'esperienza, perde i benefici acquisiti,
se li dimentica fino a rientrare totalmente nel vecchio ruolo
adattivo.
Dall'altra l'individuo che resiste irriducibilmente e si rifiuta
di ritornare ai ruoli precedenti, viene colpito dalla repressione
dura, dalla emarginazione, dal disadattamento. In entrambi
i casi l'individuo ricerca periodicamente nuove situazioni
da laboratorio, di tipo terapeutko o compensativo. Che fare?
E' tutto inutile? Questa domanda è normale per operatori
sociali, animatori, formatori, leaders.
Al momento attuale sembra esserci una sola risposta efficace,
anche se tutta da verificare: l'organizzazione.
Non si trasforma un sistema organizzativo se non mediante l'organizzazione,
il collegamento fra quanti hanno preso coscienza ed hanno vissuto
una esperienza di autogestione.
Ma è una organizzazione tutta da inventare attraverso
la verifica se sia possibile conciliare l'autogestione con l'organizzazione.
Post scriptum:
una metodologia per la critica
Alcuni potranno
osservare che molte asserzioni sono poco dimostrate e poco approfondite;
è vero: questi sono appunti per un libro da scrivere
in cui ci sarà lo spazio per le dimostrazioni
Altri noteranno l'assenza di citazioni e di riferimenti; anche
questo è vero, ma è voluto. Ritengo il "citazionismo"
una ingenuità della nostra cultura: sia che la citazione
serva a rafforzare là verità di un'idea (come
se non si trovassero citazioni per ogni cosa); sia che essa
voglia riferire la fonte e l'iter da cui la frase è stata
generata (e allora perché non partire da Platone, i Pitagorici,
la Bibbia?); sia infine se si volesse distinguere le cose prese
da quelle proprie (e allora quali idee non avrebbero una citazione).
- Altri ancora osserveranno che l'articolo tocca troppi argomenti
senza decidersi a quale disciplina vuole fare riferimento. A
costoro sottolineo che l'equazione scienza disciplinarietà
ha avuto solo lo scopo di creare una divisione del sapere, con
ruoli e caste annessi.
- Infine alcuni criticheranno l'assenza di una demarcazione
fra le dichiarazioni scientifiche e quelle etico-politiche:
a loro chiedo di dimostrare che tale demarcazione esiste.
* "L'ANIMAZIONE
SOCIALE, esperienze e prospettive", n. 11 - luglio-settembre
1997